Ieri, come ogni mese, ho acquistato “Il Fotografo” n. 267 di gennaio. Sette numeri sono stati pubblicati da quando, nel maggio 2014, Sandro Iovine ha lasciato la direzione di quella che, fino ad allora, consideravo la più importante testata di fotografia in Italia. Sette mesi, durante i quali ho voluto continuare a dare fiducia alla rivista, nonostante gli avvertimenti che l’amico Sandro aveva espresso tra le righe del suo blog il 25 aprile 2014.
Neanche tanto tra le righe ad essere onesti.
Numero dopo numero c’era qualcosa che cambiava rispetto a prima: più spazio a questioni tecniche, articoli apparentemente ben presentati da una buona impaginazione e che invece rivelavano un contenuto piuttosto sciapo, la scomparsa di rubriche, quali “leggere la fotografia” oppure quella dedicata al linguaggio delle immagini, che erano il fiore all’occhiello della rivista. Quelle che potrebbero essere semplicemente delle scelte editoriali, tuttavia, si rivelano essere, grazie proprio all’ultimo numero, il frutto dell’evidente decadimento qualitativo che ha investito la testata. La Cover Story è dedicata al noto fotografo Steve McCurry ed alla sua mostra al Palazzo Reale di Monza. Dopo un paragrafetto introduttivo, tanto celebrativo quanto stucchevole, si riporta il contenuto del “colloquio” avuto con il fotografo. Si inizia racconto, piuttosto usurato ormai, sulla sua concezione della fotografia a colori, per poi passare alle spiegazioni del passaggio al digitale che, guarda caso, è ritenuto infinitamente superiore alla pellicola. Nel prosieguo del pezzo si parla di quale attrezzatura egli utilizza per fotografare, avendo cura di mettere bene in evidenza marca e modello, senza omettere un paio di righe di esaltazione commerciale. Stessa cosa per il trafiletto su Roberto Bernè, stampatore di McCurry, che esalta la qualità delle stampanti di una certa marca, della loro superiorità, della necessità di certi attrezzi per ottenere risultati di alto livello. Ma la mostra? Quand’è o quando è stata? Com’era organizzata? Qual’era il tema? Mi è sembrato di leggere una pubblicità di Nikon ed Epson, rivolta ai fotoamatori per convincerli che senza determinati strumenti non si può diventare McCurry e non si possono, in definitiva, ottenere fotografie come quelle pubblicate. Le cose non migliorano guardando l’intervista su YouTube: due minuti contati nei quali a stento si sente la voce del fotografo che, coadiuvato dai sottotitoli in italiano che di fatto ripropongono pedissequamente i concetti dell’articoli, indica soddisfatto la sua reflex affermando che è la migliore mai prodotta. Nel resto degli articoli si alternano contenuti piuttosto scontati ad informazioni interessanti, purtroppo celate dietro la solita forma celebrativa ed ostacolate nella comprensione da una grammatica imperfetta. Il numero si conclude con la rubrica “Miniportfolio”, guarda caso innovazione della precedente direzione, nella quale viene presentato il portfolio di un fotografo toscano, tale Claudio D’Avolio, che ci mostra la sua visione della donna del Sud. La curatrice della rubrica ritiene “Ben rappresentata, anche con una punta d’ironia, la donna del sud”, ritenendo di individuare nelle undici immagini “Bellezza, allegria, passione forza e religiosità. Tralasciando il fatto che, per cause che non saprei se imputare al fotografo o all’impaginatore, le immagini sono stampate con una qualità pessima, prive di dettaglio come se i files fossero di dimensioni insufficienti (a pag. 84-85 la fotografia stampata in doppia pagina è veramente impastata), mi riesce difficile riconoscere, in queste immagini, il ritratto della donna del sud. Le immagini sono ripetitive e caratterizzate dalla presenza di elementi stereotipati giustapposti ad altri di dubbia pertinenza: sarà un mio limite ma non vedo ironia in un cesto di limoni ai piedi di una donna, bella per carità, ma vestita da soubrette, con tacchi a spillo e manicure all’ultimo grido.
E’ la fine di un mito, questa rivista non ha più nulla da darmi.
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