San Luca, Domenica 14 Dicembre 2014
L’escursione saltata la domenica precedente è riproposta. Francesco Bevilacqua mi contatta in settimana per confermarmi che, salvo imprevisti, lui e alcuni amici verranno a Cirella di Platì.
Le previsioni questa volta sono buone ed in effetti già il sabato è stata una giornata splendida.
L’appuntamento è a Cirella alle 7.30 del mattino.
Arrivati sul posto lasciamo le auto e facciamo le dovute presentazioni con gli altri due ragazzi che comporranno il gruppo. Sento già che sarà una giornata diversa: loro sono escursionisti veri, attrezzati e pronti a tutto, io solo un umile fotografo amante di questa terra. Non sarò io a dettare i tempi di questa “spedizione”, che già si preannuncia impegnativa, quindi so che non potrò dedicare alla fotografia il tempo che di solito le riservo. Il mio voluminoso e solido treppiedi resta in macchina, mi sarebbe d’impiccio durante il tragitto.
Il percorso mostra immediatamente la sua difficoltà: imbocchiamo una stretta strada semi-asfaltata che immediatamente inizia a salire con una pendenza importante. Poche decine di metri e il freschetto del primo mattino è già un ricordo. Un pastore ci saluta e ci domanda di aspettare a passare: deve fare uscire le capre dal recinto e dietro di noi si agiterebbero. Data la precedenza al gregge, che subito si dilegua nella macchia, proseguiamo il cammino.
Qualche metro e la strada cessa di essere tale, i residui del fondo in cemento finiscono, lasciando il posto ad un canale scavato nella roccia dall’acqua piovana, che regolarmente distrugge i tentativi di pavimentazione. Siamo nei pressi dell’antico abitato di Cirella: muretti a secco e rudimentali costruzioni rappresentano le vestigia degli avi degli attuali abitanti del nuovo centro più a valle.
Da lì si apre un panorama mozzafiato nel ventre della montagna: la gola della fiumara Ficara Janca si apre davanti ai nostri occhi, inondata dalla luce del mattino. Il fragore dell’acqua che si infrange sui sassi del torrente sale fino a noi, che siamo un centinaio di metri più in alto.
“Entreremo là dentro!” esclama Francesco, indicando l’abisso.
Il cammino prosegue ed il sentiero si dipana di curva in curva verso il basso, fino ad incontrare il greto del torrente. Sulla strada tracce di abituri atavici, perastri ed altre tracce che rappresentano la firma dell’uomo di oltre un secolo fa. Raggiungere oggi questi luoghi è un’avventura, per alcuni un’impresa, eppure qui l’uomo ha vissuto, molto tempo fa, tra le rocce e il suono dell’acqua.
Raggiungiamo il greto della Ficara Janca, non c’è moltissima acqua e i vari guadi da una parte all’altra dell’alveo sono piuttosto agevoli. Abbiamo abbandonato il sentiero e siamo ormai dentro il torrente e ad ogni passo il cammino si complica.
Improvvisamente il letto subisce uno stravolgimento, il dislivello si impenna e siamo costretti ad arrancare a quattro mani in salita, tra lecci monumentali e querce imponenti. Ci avviciniamo al cuore della gola e la potenza della natura si manifesta in tutta la sua pienezza. Enormi macigni scaraventati dalla furia del torrente nei periodi di piena, molti dei quali trattenuti dalle possenti radici degli alberi. Molti sono recenti, ma altri si sono staccati dalle pareti della montagna in tempi remoti, probabilmente sono lì dal neolitico.
La fatica continua ancora per un’ora, tra brevi soste e qualche fotografia. Poi, improvvisamente, superato l’ultimo macigno le pareti della gola terminano di fronte ad una parete verticale di roccia. Metà è coperta di lussureggiante vegetazione, l’altra metà è di nuda pietra. In alto la verticalità della parete è interrotta da una fenditura di forma quasi rettangolare, dalla quale l’acqua sgorga incessantemente, dapprima scivolando sulla roccia, poi insinuandosi tra i macigni, disegnando percorsi che si diramano per poi ricongiungersi nel torrente. E’ la Cascata di Malacaccia! Collocata nel ventre della montagna e adornata di verde brillante, essa appare all’osservatore come un fiordo in miniatura, ammaliandolo con la sua sinfonia d’acqua. La portata non è elevata: riuscire a raggiungere questo luogo nei periodi di piena con l’attrezzatura fotografica è un’impresa proibitiva, ma lo spettacolo deve togliere il fiato.
Dopo alcuni minuti dedicati alla fotografia riprendiamo il cammino. Non siamo neanche a metà dell’anello che Francesco si propone di compiere per tornare al punto di partenza.
Dobbiamo ridiscendere il corso del torrente, tornando sui nostri passi per alcune decine di metri, per poi imboccare una vera e propria scalata al versante della gola sulla destra idrografica.
Da lì non abbiamo più riferimenti, se non il nostro orientamento, per ricongiungerci al sentiero che si trova a monte della gola. Proseguiamo lentamente all’interno della macchia e in circa un’ora superiamo un dislivello di circa 150 metri. La pendenza è estrema e la fatica inizia a farsi sentire.
Ma la direzione è giusta e gli sforzi sono premiati: il fianco della montagna che abbiamo percorso, immersi nel bosco di lecci, ci conduce all’aperto, sul crinale a picco sull’abisso dal quale proveniamo. La vista spazia sino al mare e l’anima si riempie. Abbiamo l’esatta percezione del percorso compiuto sino a quel momento e se non fosse per il fatto che, poco prima, eravamo in quella forra, nessun uomo sano di mente potrebbe mai pensare che quei luoghi fossero percorribili.
Incrociamo l’acquedotto di Cirella, lambendo i margini della foresta di faggio che, in quel tratto, si sostituisce ai lecci ed alla roverella: il sottobosco cambia improvvisamente, ammantato di un tappeto di foglie che variano dal giallo all’arancio intenso.
L’“acquaro”, come viene chiamato in dialetto locale l’acquedotto, ci accompagnerà, guidandoci, praticamente sino alla fine del percorso, passando per Monte Jacono e Monte Colaciuri. Una delle vasche di raccolta è aperta e ne approfittiamo per fare scorta d’acqua. Da quel punto inizia uno dei sentieri più suggestivi e affascinanti dell’intero Aspromonte Jonico, purtroppo non segnalato in alcun modo, né dal vivo né tantomeno sulle carte. Lambisce le due vette e quando ci troviamo sotto il Colaciuri è impossibile resistere alla tentazione di scalarne il versante nord per raggiungere la sommità. L’ascesa non è agevole, la roccia è un misto di arenaria friabile e sotto c’è un minaccioso strapiombo. Con un po’ di attenzione raggiungiamo la cima e la vista è ancora più impressionante di poco prima: non solo vediamo la gola, ma anche il crinale a monte da cui proveniamo, l’altipiano dello Zomaro e, verso il mare, la valle della Fiumara Cirella, immersa in un verde intenso. Non si può dire di conoscere la propria terra se non si visitano luoghi simili, che consentono di dominarla totalmente in un solo colpo d’occhio.
Torniamo al sentiero e proseguiamo la discesa, verso Monte Jacono. Durante l’ultima parte del tragitto vedute spettacolari si susseguono, una dietro l’altra, senza soluzione di continuità. L’Aspromonte svela agli intrepidi visitatori dei suoi crinali la sua vera anima. I valloni si ripetono, uno dietro l’altro, all’infinito, intercalati da vene d’acqua che scendono dalle vette più alte, formando cascate e salti d’acqua ancora inesplorati.
Puoi percorrere in lungo e in largo una terra per tutta la vita e non avrai mai visto tutte le pieghe delle sue vesti.
Ci immergiamo di nuovo nella lecceta, scendendo tra pietre e massi fino a raggiungere i confini dei coltivi più a valle. Fasci di rami di leccio tagliati e ordinati tradiscono la presenza umana e confermano che siamo scesi dal lato giusto.
Oltrepassiamo alcune recinzioni artigianali, siamo ormai all’interno dei coltivi della parte alta di Cirella. Una Vespa blu appoggiata alla roccia, utilizzata da qualche contadino per percorrere l’ultimo tratto di sentiero che dalla strada conduce ai suoi poderi, preannuncia l’arrivo alle auto, che individuiamo in lontananza dopo l’ultima ansa della montagna.
Sono le due del pomeriggio. Abbiamo camminato, pressoché ininterrottamente, per oltre sei ore, immersi in una natura potente e selvaggia, che a volte può essere ostile ma che sa regalare al visitatore innamorato e paziente, il lato più intimo e recondito della Montagna di Calabria.
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