Domenica, Montagna.
Il fantastico binomio si realizza ancora una volta, per me, in questo epilogo di settimana di fine novembre. Parto in auto da San Luca alle 6.50, senza avere in mente una meta precisa, dirigendomi verso i monti.
La luce è fantastica. Il sole è sorto da poco e trasforma i rivoli del torrente Bonamico in un intreccio di piste d’oro che si gettano in mare. Pochi chilometri e il paese è alle spalle, ingoiato dalla valle ed ormai invisibile.
Dopo alcuni tornanti la strada si affaccia nella parte bassa della Valle delle Grandi Pietre: Pietra di Febo, Pietra Castello e Pietra Longa si mostrano maestose, illuminate dalla calda luce mattutina. Il Montalto, sornione, è sullo sfondo, ammantato dalla sua veste rosso cremisi, con tinte azzurre e verde scuro, caratteristica del finire dell’autunno.
Salendo ancora la strada giunge ad un affaccio panoramico, nel quale Pietra Cappa è padrona assoluta. Fermo la macchina e scendo ad osservarla. Il fragore del torrente Salice si sente da quassù. Il dado è tratto: la mia meta sarà la Regina d’Aspromonte!
Ho sempre fotografato Pietra Cappa da lontano, per lo più dal versante sud oppure dalla sommità di Pietra Castello o di Pietra di Febo – luoghi eccezionali e densi di un fascino atavico – ma non mi ero mai deciso a percorrere il sentiero che conduce alle sue pendici, preferendo, ora per un motivo ora per un altro, destinazioni diverse per le mie peregrinazioni montane.
Ma la giornata è splendida e la foresta, a 700-800 metri di altitudine sul versante orientale della Calabria, è ancora ricca di colori autunnali. Parcheggio l’auto al bivio con la carrareccia che, dopo circa quattro chilometri, conduce al monolite e inizio la camminata. Dopo pochi tornanti lascio la strada, che mi annoia un poco, e mi immergo nella lecceta. Non conosco la zona, ma orientandomi incrocio la pista n. 103 del CAI, segnalata dai consueti indicatori rosso-bianco-rosso dipinti su tronchi e rocce. So che devo seguirla scendendo sulla sinistra, ma a destra, in altro, il sentiero preannuncia un poggio panoramico e la luce è bella. Salgo.
Poco dopo sono su una selletta, con Pietra Longa sullo sfondo e un recinto sulla sinistra: il piccolo gregge di caprette si ferma ad osservarmi ed una di loro mi regala una fotografia.
Scatto quale foto e poi torno sui miei passi, seguendo la pista che, dopo una breve discesa tra lecci, querce e cespugli di corbezzoli, si ricongiunge con la carrareccia verso Pietra Cappa. In quel tratto il greto di un torrente (che poi si congiungerà al Salice, scendendo verso San Luca) scorre vicino alla stradella e proprio sopra gli argini si possono osservare, ad una trentina di metri l’uno dall’altro, tre castagni secolari.
Il primo appare quasi per magia in uno slargo della strada. Le radici sono saldamente ancorate alla parete verticale dell’argine; il tronco, enorme, fa una curva verso l’alto per poi separarsi in due distinti rami portanti la chioma.
Poco più avanti, sempre sulla destra della strada sopra il torrente, il secondo castagno è seminascosto dalla vegetazione. La parte alta del tronco è ricoperta di edera selvatica ed uno dei possenti rami maggiori, divelto dalle intemperie, è trattenuto dalla caduta al suolo da un grosso leccio vicino. Il tronco è enorme, in parte ricoperto di muschio. La corteccia è spessa e corrugata da profondi solchi. Lo accarezzo e gli chiedo se non si annoia a star lì da secoli e secoli. Lui mi risponde di no, perché vacche, torelli e maiali neri lo vanno a trovare; questi ultimi, poi, vanno matti per le castagne!
Il terzo è il più maestoso e regale. Il tronco alla base ha un diametro davvero notevole, con una caratteristica apertura a tenda di indiano, nella quale potrebbero stare in piedi quattro o cinque persone.
Stare al cospetto di questi monumentali esseri viventi è come affacciarsi alla finestra della storia. Sono sopravvissuti a terremoti, inondazioni, disboscamento. Hanno visto cambiare il mondo in un modo precluso all’essere umano, la cui vita non è che un battito di ciglia al confronto.
Profondo è il rispetto che suscitano.
Proseguo il cammino dopo aver scattato diverse fotografie, anche includendo me stesso alla base del tronco, per dare l’idea delle dimensioni, ma anche perché non capita tutti i giorni di incontrare simili “celebrità” della foresta. Dopo aver lambito alcuni coltivi e recinti di animali, la strada si tuffa sul greto della fiumara Salice, che in quel tratto è particolarmente largo, e prosegue sulla sponda opposta, guadagnando nuovamente il bosco. Dopo alcuni tornanti in salita, uno dei quali letteralmente divorato da una frana e ricostituito in modo precario dagli abitanti locali, la pista arriva al cancello del Casello San Giorgio. Da lì inizia la pista n. 124 del CAI che conduce alle pendici di Pietra Cappa, passando per un magnifico bosco di castagni.
Le piante sono relativamente giovani, con qualche “vecchio saggio” che fa capolino ogni tanto.
Dentro quel bosco l’Aspromonte cambia volto. Salvo alcune violente piogge, novembre è stato mite ed i castagni hanno potuto compiere gradualmente lo sfoltimento autunnale delle fronde. La foresta è di un dorato abbacinante, assomiglia alla Caverna delle Meraviglie di Aladino, ma più preziosi sono i suoi tesori. I sensi sono ebbri: colori, odori, suoni: una cornacchia si libra in volo e posso percepire nitidamente, sopra di me, il fruscio del suo batter d’ali.
E Pietra Cappa?
Quasi avevo dimenticato il motivo per cui ero lì. Cerco di orientarmi, chiedendomi dove si trovi rispetto a me il monolite e quanto disti ancora. La foresta non è fitta in quel punto, anche per via di un altro torrentello che si frappone sul sentiero, ma non ci sono radure. Stavo per rinunciare ad individuare visivamente la Rupe quando, improvvisamente, mi rendo conto che quell’enorme presenza incombente, in leggera lontananza dietro le fronde degli alberi che si staglia contro il cielo è proprio Lei!
La Regina d’Aspromonte è immensa e lo si capisce già osservandola anche da grande distanza. Ma è solo quando ti avvicini alle sue pendici che ti rendi davvero conto di quanto sia ciclopica. Si erge dal fitto del bosco, come se fosse stata poggiata lì da un mostruoso gigante, e incombe sempre di più ad ogni passo.
Il sentiero conduce direttamente alle falde del versante sud, raggiungendo dapprima una piccola radura erbosa, posta direttamente sotto la parete che si innalza verticalmente per oltre cento metri (Pietra Cappa misura 829 metri s.l.m.), per poi giungere ad una sella tra il monolite principale ed un secondo più piccolo (ma ugualmente imponente) posto lato mare. Da lì la vista spazia verso Natile e Platì, ma raggiunge ben presto Ciminà e Monte Tre Pizzi. Guardando in quella direzione, sulla sinistra rimane il crinale aspromontano dei Due Mari, sul quale si trovano l’altipiano dello Zomaro, Zervò, contrada Moleti e, subito dall’altro lato, Santa Cristina e Oppido Mamertina. La vista che si domina da quassù è tra le più entusiasmanti dell’intero Aspromonte.
Nel riprendere la via del ritorno mi soffermo in un punto del sentiero, poco prima di raggiungere Pietra Cappa, che avevo individuato all’andata. Avevo ipotizzato che abbandonando la pista e salendo sulla sinistra (la destra al ritorno), avrei raggiunto un punto sopraelevato che poteva offrire una vista complessiva sulla Rupe. In effetti, non solo avevo ragione, ma poco più in alto del sentiero da me battuto all’andata (e comunque segnalato dal CAI) ve n’era un secondo, sul quale sorge un piccolo rifugio in legno e pietra, in buone condizioni, che funge da crocevia con un’altra pista che conduce a Natile. Percorrendola si arriva subito ad uno slargo sul quale la parete nord-ovest si offre senza ostacoli alla vista. Peccato soltanto che la luce non sia delle migliori per le fotografie: è mezzogiorno passato e il cielo è di un bianco lattiginoso. Scatto comunque qualche fotogramma e mi rimetto in cammino per la via del ritorno.
Un’ora e mezza ho impiegato per tornare alla macchina, quasi la metà del tempo dell’andata, in gran parte trascorso a fotografare le infinite meraviglie naturalistiche incontrate per la via.
Come spesso accade, lo scopo del viaggio non è la meta, bensì il viaggio stesso.
Andare a Pietra Cappa non significa soltanto visitare uno dei luoghi più singolari e identitari dell’Aspromonte, ma anche e soprattutto immergersi in una delle più belle foreste del nostro massiccio, dove Querce di Rovere giganti, Castagni secolari, Lecci imponenti, Pioppi, Aceri, Pini, e molte altre varietà di piante trovano asilo. Significa sentirsi parte della storia dei popoli calabresi, perpetrata dai coltivi curati e dagli allevamenti totalmente tradizionali e naturali.
Significa, in definitiva, trascorrere almeno cinque o sei ore in una natura esplosiva e rigogliosa, con tracce dell’uomo nella giusta misura e con un posto in prima fila su una parte importante del paesaggio montano calabrese, che è possibile apprezzare con rara completezza per i sensi e per lo spirito.
Giancarlo Parisi
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