Devo ammetterlo, non conoscevo Anastasia Chernyavsky prima che lo “scandalo” relativo alla pubblicazione della sua fotografia impazzasse sul web. In ciò, la sua nudità e quella delle sue bambine è certamente stata un elemento determinante nella generazione dello scalpore che la fotografia ha determinato: se madre e figlie fossero state vestite (o meno nude) probabilmente la foto sarebbe passata molto più in sordina su Facebook, osservata come una foto con l’inquadratura storta e liquidata dopo un secondo, persa nell’immenso mare della rete.
E invece no. La mamma-fotografa era nuda, con il vello pubico bene in vista e con una goccia di latte che scende giù dal seno, turgido per via della gravidanza evidentemente conclusasi da poco. La figlia più grande che l’abbraccia ad una gamba, con gli occhi chiusi ed in una condizione di apparente, assoluta serenità; l’altra figlioletta in braccio. Al centro “l’occhio” inflessibile e violatore della fotocamera.
La fotografia viene condivisa sul celebre social network e dal momento che contravviene a tutte le norme etiche dello stesso viene rimossa. Ma il tutto non rimane senza seguito: la censura, e la stessa pubblicazione, diventano un argomento di dibattito frazionato in molti angoli della rete e che vede protagonisti i soliti innocentisti, che non vedono nulla di male in questa foto e che, anzi, la trovano molto bella, e gli irriducibili colpevolisti, orda di “bolscevichi” che non tollerano assolutamente una foto del genere e condannano a morte l’Anastasia di turno.
L’impressione che ho avuto quando ho letto alcuni dei commenti lasciati in coda ai vari articoli pubblicati da blogger e testate giornalistiche, tuttavia, è stata quella di una valutazione piuttosto superficiale della fotografia in questione. Anche quando l’autrice viene difesa, le argomentazioni “favorevoli” sono piuttosto riduttive ed incentrate sulla bellezza e spontaneità dello scatto. Mentre le critiche muovono soprattutto intorno alla nudità, accentuata dalla presenza delle bambine e, dunque, all’opportunità della pubblicazione. Nessuno, almeno tra i commenti e gli articoli che ho letto, che si chieda cosa abbia spinto la fotografa a realizzare questa fotografia; cosa, in definitiva, ella abbia voluto raccontare. E quand’anche la domanda affiori alla mente, viene subito messa da parte, perché niente può giustificare una tale mancanza di pudore e buon senso, oppure, nel caso dei sostenitori, perché comunque prevale il mero piacere estetico evocato dallo scatto. Ma esiste una verità tendenzialmente assoluta circa la natura di questa immagine e la sua esistenza?
La foto a me piace.
Indubbiamente è difficile, nello spiegare il perché, superare il luogo comune secondo cui una bella donna, per di più nuda, renderebbe bella qualunque fotografia agli occhi di un uomo. Lo dice anche Letizia Battaglia in un suo noto aforisma. Addirittura alcuni studi dimostrano che in presenza di determinati soggetti, la pupilla si dilata più che con altri, a seconda dell’interesse che essi suscitano nella mente dell’osservatore. Inutile dire che nudi femminili portano alla massima dilatazione, quando l’osservatore è di sesso maschile.
Tuttavia, pupilla a parte, ritengo che sussistano argomentazioni di maggiore spessore che possano essere proposte per analizzare questa fotografia. Proviamo a leggerla.
Senza altri riscontri che non siano gli elementi forniti dal piano descrittivo dell’immagine possiamo soltanto avanzare delle supposizioni. Guardandola capiamo che siamo in un ambiente domestico, molto intimo e personale, probabilmente la casa in cui vivono i soggetti ritratti. Il contesto privato attenua l’impatto iniziale circa la nudità. Una delle bambine ha solo pochi mesi e ciò rende quasi ridicolo l’utilizzo dell’aggettivo “nuda” per descrivere la sua condizione. L’altra figlia invece, più grande, manifesta una assoluta tranquillità nel mettersi in posa per questa fotografia; ciò induce a ritenere che la madre probabilmente la fotografa spesso e che la nudità non rappresenta un tabù nel loro contesto familiare. I rapporti di parentela li desumiamo, senza certezza assoluta ma con buona approssimazione, per la bambina più piccola dal fatto che la donna è evidentemente reduce da una gravidanza recente, mentre per la più grande dal fatto che, probabilmente, se fosse stata una nipote o la figlia di amici non sarebbe stata fotografata, né avrebbe circolato nuda in casa loro. Ovviamente possiamo anche sbagliarci; solo leggendo il blog di Anastasia si apprende che si tratta delle sue figlie e che, quindi, sono entrambe bambine.
Dagli elementi descrittivi offerti dall’immagine, poi, non possiamo sapere di più, né il perché la fotografa abbia deciso di riprendere se stessa e le figliolette senza vestiti. Possiamo però ritenere che, se come pare, la nudità non è un tabù in casa Chernyavsky, altrettanto normale è il pensare di realizzare un ritratto delle “donne di casa” in libertà assoluta. Certo, non tutte le persone realizzano ritratti di famiglia senza nulla indosso, figuriamoci pubblicarle su internet. Chiaro, dunque, che questa seconda attività, la pubblicazione, stenta ad essere accettata moralmente, provocando le reazioni “bolsceviche” di cui si diceva.
Gli argomenti più frequenti a sostegno della assoluta inopportunità circa la pubblicazione di questa immagine (e di immagini simili), ruotano attorno alla sua presunta immoralità e sconvenienza, accentuata dalla presenza di bambini, nonché alla sua presunta finalità propagandistica: la fotografa, secondo molti, avrebbe scattato e pubblicato l’immagine con lo scopo, principale se non esclusivo, di farsi pubblicità. Eppure, ad una indagine più attenta, si scopre che non sia stata l’autrice a condividere l’immagine su Facebook, ma un altro utente ignoto che ha prelevato l’immagine dal suo blog, come lei stessa afferma in questa intervista dove dichiara, altresì, di aver scattato la fotografia per superare i suoi problemi personali circa l’allattamento al seno (di che genere di problemi si tratti, non lo sappiamo). Vero è che lei ha comunque pubblicato la foto su internet, ma a questo punto la presunta finalità propagandistica si riduce di colpo: se la fotografia non fosse finita sul celebre social network la sua pubblicazione non avrebbe avuto questa risonanza. Se a questo aggiungiamo il fatto che Anastasia Chernyavsky pratica la fotografia dall’età di 15 anni e che attualmente lavora come fotografa professionista freelance per riviste, agenzie di moda e clienti privati, dovrebbe essere agevole comprendere come il suo rapporto con le immagini fotografiche, specie quelle proprie, assuma connotazioni del tutto sui generis rispetto a quelle di chi la fotografia la utilizza in modo sporadico e atecnico. Un fotografo adopera la fotografia come strumento di narrazione visiva, un linguaggio attraverso cui raccontare e raccontarsi. Se la stessa immagine fosse stata una poesia o una piccola prosa, non avrebbe certo suscitato le reazioni in questione.
Prima ho detto che la pubblicazione di una foto simile incontra difficoltà ad essere accettata e giustificata. In realtà è l’atto fotografico stesso ad risultare, ai più, inconcepibile. Il punto è domandarsi perché. E’ evidente che le difficoltà in parola sono figlie di una cultura e società, che ci hanno “insegnato” che si va in giro vestiti e che “ai bambini non si mostrano certe cose”. E’ anche vero, però, che in altre parti del mondo le cose funzionano in maniera opposta; tutto dipende dal momento culturale e dal tessuto sociale dove la foto è presentata.
Il punto è che la fotografia di Anastasia non obbliga nessuno a riprendere se ed i propri figli senza vestiti, né pretende di essere giustificata sul piano morale. La fotografia racconta una storia, che può essere compresa solo parzialmente guardando solo quel fotogramma, ma che può essere il punto di partenza per conoscere di più. Basta avere la necessaria curiosità e la giusta apertura mentale. Basta avere voglia di “leggerla” quella storia. Trovo piuttosto ridicolo sostenere che la foto non doveva essere pubblicata perché non è giusto mettere in circolazione fotografie che possano turbare l’altrui sensibilità. Siamo circondati da volgarità e oscenità che accettiamo perché non riusciamo a cogliere come tali, perché sono inglobate, assorbite in un sistema del quale neanche percepiamo la presenza. Poi viene fuori una maternità, bellissima nella sua semplicità e ci scandalizziamo per un pube scoperto, perdendo la possibilità di crescere interiormente. A me la fotografia ha consentito di conoscere i lavori di Anastasia Chernyavsky e di scoprire che ha realizzato un intero progetto sulla maternità. Un progetto molto bello e denso di significato a mio modo di vedere, che racconta di un’attesa vissuta insieme, momento dopo momento e nel quale la tipica gelosia per l’arrivo di un fratello o una sorella è praticamente annullata. La fotografia criticata può tranquillamente essere la naturale conclusione del progetto sulla maternità, che potete visionare sul blog dell’autrice.
Sono fotografie che raccontano di un amore molto intenso tra madre e figlie, “Ethel Sofia and Thais Michelle – my muses and best models! They give me life. They give me gold that I turn to silver”. Così Anastasia, parla di loro…
Potete trovare questo articolo all’interno del primo numero di “Camera con Vista”, magazine Digitale dell’Associazione Fotografica Culturale Imagorà.
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