Le riprese fotografiche
Eccoci al secondo appuntamento della nostra serie di articoli sulla stampa FineArt in fotografia digitale. La volta scorsa abbiamo fatto una carrellata introduttiva sul mondo del FineArt, ed in particolare su come realizzare stampe di pregio in totale autonomia, senza per ciò stesso rinunciare agli standard qualitativi e di durevolezza offerti dai laboratori specializzati, seppur con alcuni compromessi. E’ adesso arrivato il momento di addentrarci nel cuore dell’argomento, iniziando ad affrontare la prima tappa del processo (workflow) che conduce alla realizzazione di una stampa FineArt. In questa seconda puntata, infatti, ci occuperemo della fase di reperimento, cioè a quella dedicata alla materiale realizzazione delle fotografie.
Fotografare per il FineArt
Nella puntata introduttiva ho fatto una premessa, affermando che la decisione di stampare personalmente in FineArt dovrebbe coincidere con un momento di relativa maturità fotografica, sia per quanto riguarda il corredo fotografico e l’attrezzatura in genere, sia per la padronanza della tecnica. E’ abbastanza inconcepibile, infatti, pensare di investire in attrezzature e consumabili per la stampa FineArt quando ancora non si possiede una dimestichezza pressoché totale con gli aspetti tecnici legati al fotografare.
La fotografia moderna, caratterizzata da un notevole apporto tecnologico, consente ormai a chiunque di scattare una fotografia con una facilità estrema, mentre già solo quindici o venti anni fa il medesimo atto richiedeva un approccio molto più complesso. Se poi le lancette del tempo si portano ancora più indietro, le cose si complicano a dismisura. In quasi due secoli la tecnologia ha rivoluzionato il modo di vivere la fotografia.
Tuttavia, se da un lato tutto questo ha reso più facile il mero atto del fotografare, dall’altro ha alimentato il progressivo annichilimento della figura del fotografo. Si verifica, in definitiva, che i nuovi fotoamatori entrano nel mondo della fotografia in un momento in cui vi è una fortissima accelerazione verso un presunto risultato di riferimento e con il desiderio di raggiungerlo nel minor tempo possibile e con pochissimo sforzo. In un tale stato di cose è forte il rischio che chi si avvicina alla fotografia non le dedichi quel livello di impegno, passione e sacrificio per l’approfondimento, che è l’unico vero mezzo per ottenere risultati convincenti.
Giusto qualche giorno fa Neal Rantoul ha pubblicato un interessante articolo su petapixel, nel quale affronta il problema dell’impoverimento dei contenuti e della tendenza a prestare maggior attenzione al contorno piuttosto che alla fotografia in sé, ma questo è un argomento che rischia facilmente di portarci fuori strada.
Tornando al nostro discorso, decidere di aggiungere al proprio workflow fotografico anche la fase della stampa (scelta un tempo obbligata ed oggi solo facoltativa), implica la piena padronanza della tecnica di ripresa (e poi di postproduzione). Il che non significa non poter “sbagliare un colpo”, ma ridurre al minimo gli errori e comprendere la natura ed i motivi di quelli commessi. Tutto questo si traduce in anni di studio per comprendere a fondo il funzionamento generale di una fotocamera ed approfondimenti sullo specifico modello utilizzato. E’ importante, infatti, conoscere bene i limiti del proprio mezzo, la sua risposta alla luce ed in genere le caratteristiche del file che è in grado di fornirci nelle diverse situazioni di ripresa. Solo così sarà possibile ottimizzare il workflow ed ottenere ottime stampe.
In realtà il discorso che stiamo affrontando andrebbe esteso al di là della decisione di stampare FineArt, ed applicato alla fotografia in genere. Il mutamento del concetto di “prodotto fotografico” in qualcosa che coincide sempre meno con la stampa, implica che la padronanza del processo è indispensabile anche se ci si limita a pubblicare e condividere sul web. La stampa digitale, infatti, avviene a editing ultimato, senza che sia possibile effettuare interventi “durante”. Le operazioni che tradizionalmente si effettuavano in camera oscura – quali mascherature, bruciature, viraggi, ecc. – e che coincidevano con la fase di stampa, sono state oggi traslate in una collocazione diversa, che coincide con la finalizzazione di un prodotto che non è più necessariamente cartaceo e che, quand’anche lo fosse, non richiederebbe ulteriori interventi. Chi volesse approfondire questo argomento può trovare approfondimenti e spunti utili nel mio saggio “Processo alle Fotografie“.
La fase di finalizzazione della fotografia si esautora, dunque, nel momento in cui si conclude la postproduzione del file finito; quest’ultimo, qualora lo si volesse stampare, non richiede ulteriori interventi ma va dato in pasto ad una stampante e le uniche operazioni da effettuare riguarderanno le impostazioni del profilo colore e dell’intento di rendering (ne parleremo nelle prossime puntate). Di conseguenza, anche se non decidiamo di stampare personalmente le nostre immagini, limitandoci a pubblicarle su internet o farle stampare ad un laboratorio, essere comunque in grado di realizzare quello che per Ansel Adams era “il negativo perfetto” e di operare sullo stesso la migliore postproduzione possibile è un passo indefettibile per ottenere delle fotografie dall’elevato livello tecnico.
La pianificazione e la reazione
Il primo passo da fare verso la realizzazione di una fotografia che ben si presti a divenire una stampa FineArt riguarda la gestione della riprese. In tal senso la pianificazione assume un ruolo fondamentale: il fotografo impara a pre-visualizzare il risultato finale ed a lavorare in funzione del suo ottenimento. Ciò implica il discernimento di molti fattori: il tipo di soggetto e le sue caratteristiche specifiche, la luce più adatta per riprenderlo, il momento e l’inquadratura. Tutto ciò si riflette sugli aspetti tecnici, dovendo impostare correttamente la fotocamera, scegliere la miglior coppia tempo-diaframma, il valore ISO, la focale ed il tipo di luce da utilizzare.
La pre-visualizzazione, tuttavia, non è sempre associata ad un tipo di fotografia relativamente statico, come possono essere il paesaggio o lo still-life. A volte le scelte che stanno dietro ad una buona fotografia devono essere adottate in tempi brevissimi, come reazione ad una scena contingente. Sarebbe un errore, infatti, pensare che la stampa FineArt possa riguardare unicamente fotografie totalmente pianificate, in cui ogni dettaglio è studiato a tavolino. In questo senso, la reazione può prendere il sopravvento sulla pianificazione, senza però che la pre-visualizzazione venga meno.
La fotografia sopra riassume pianificazione e reazione insieme, maturate nello spazio di un paio di secondi. La fotografia di strada, o street photography per utilizzare un diffuso neologismo, richiede al fotografo un costante livello di attenzione al mondo che lo circonda, solo così è possibile essere pronti a catturare scene simili. Le ragazzine avevano già effettuato una ruota e si preparavano alla successiva, ciò mi ha lasciato il tempo di comporre, attendere il culmine dell’esercizio e scattare. Dal punto di vista tecnico la fotografia non ha richiesto particolari accorgimenti: la fotocamera era impostata a priorità di diaframmi, ho impostato lo zoom 24-70 sulla focale di 35mm e il diaframma ad f/9, in modo da avere una buona profondità di campo e contestualizzare la scena; il tempo di otturazione è stato di 1/320 di secondo a ISO 400.
Anche quest’altra immagine è stata presa in una situazione contingente. Le bambine che giocavano nel parco hanno attirato la mia attenzione. Ho impostato un diaframma piuttosto chiuso (f/8) per poter utilizzare un tempo di otturazione relativamente lento (1/20 sec.) e dare così il senso del movimento rotatorio. Anche in questo caso, dunque, è stato necessario assumere decisioni tecniche in breve tempo, per evitare di perdere il “momento decisivo”.
In altre occasioni, invece, le scelte tecniche possono essere prese con maggiore calma, ponderando attentamente ogni elemento in grado di influire sul risultato finale.
Questo seascape, invece, è il frutto di un attento studio della composizione, volta a realizzare il giusto equilibrio tra primo piano e cielo. L’immagine è stata realizzata anteponendo all’obiettivo un filtro ND x1000 ed un polarizzatore allo scopo di allungare l’esposizione per ottenere il livellamento dell’acqua del mare e ridurre i riflessi sulla rocce e saturare i colori.
La ripresa ha richiesto 72 secondi di esposizione a f/16 e ISO 200, ragion per cui è stato indispensabile ricorrere al cavalletto ed al cavo di scatto flessibile con sollevamento anticipato dello specchio, per evitare anche la minima vibrazione che avrebbe compromesso la nitidezza.
La buona fotografia, dunque, è frutto di un insieme di ingredienti, che vanno miscelati di volta in volta in dosi diverse, a seconda del tipo di soggetto e circostanza nella quale ci troviamo a fotografare. In tutti i casi è necessario porre la massima attenzione a tutti gli elementi che entrano nella scena, valutando punti di ripresa alternativi, cambiando leggermente posizione, valutando la direzione della luce e la posizione dei soggetti, eccetera.
Bisogna, in definitiva, affinare il proprio sguardo e coniugarlo nel miglior modo possibile con i problemi tecnici legati alla ripresa. Voglio segnalarvi, sul punto, un interessante pezzo dell’amica Sara Munari, nel quale l’autrice e fotografa ci spiega con semplicità come “vedere fotograficamente“.
Il file RAW e la valutazione dell’istogramma
L’unica “licenza tecnica” che voglio concedermi in questa puntata, salvo gli approfondimenti che seguiranno nei prossimi appuntamenti, riguarda l’utilizzo del RAW come formato di registrazione dei file digitali prodotti dalla fotocamera. Anche qui tuttavia, data l’enorme mole di informazioni che è possibile reperire sulla rete e nei manuali di fotografia, non mi addentrerò in una trattazione specifica, che risulterebbe eccessivamente tecnica e porterebbe fuori strada.
Certo è che la stampa FineArt implica la possibilità di contare sulla massima gamma dinamica e cromatica che la fotocamera è in grado di offrire. Per questa ragione l’utilizzo del formato grezzo è imprescindibile, in quanto rappresenta l’unico modo per sfruttare appieno le potenzialità del sensore (e dell’obiettivo).
Molti fotografi, anche dotati di un eccellente occhio fotografico, non riescono ancora a familiarizzare con questo formato, che richiede un approccio diverso rispetto al diffusissimo e universale JPEG.
La scelta di scattare in RAW, in particolare, implica una rivisitazione dell’intero workflow, incentrata su programmi di gestione dell’archivio e di conversione, che sintetizzano in versione informatica tutto quello che una volta era racchiuso tra le pareti di una camera oscura. Non a caso uno dei principali software di gestione e conversione dei file RAW si chiama Lightroom (letteralmente “camera chiara) prodotto dalla Adobe che attualmente commercializza la release 6.5 e che sarà al centro delle prossime puntate del nostro percorso.
I vantaggi del formato RAW sono molteplici. Uno di essi consiste nella posticipazione della demosaicizzazione, che in tal modo non soltanto è effettuata da un software più potente, ma può essere personalizzata senza decadimento qualitativo evidente, ottenendo così una infinità di rese cromatiche diverse che sul jpeg sarebbero impossibili o molto limitate. Altro vantaggio è la profondità di codifica, che raggiunge attualmente i 14bit per canale, ottenuti il più delle volte mediante processo a 16bit dei dati grezzi acquisiti dal sensore; ciò si traduce in una gradualità nei passaggi di tono notevolmente maggiore. Tutte le modifiche sul RAW, infine, sono reversibili senza perdita.
Prima ho fatto riferimento al concetto di negativo perfetto coniato da Ansel Adams, padre del sistema zonale. Le sue teorizzazioni ed i suoi scritti sono oggi molto utili anche in fotografia digitale, anche se necessitano di alcuni adattamenti concettuali. Con la pellicola, infatti, i margini operativi erano molto più risicati ed era necessario effettuare calcoli accurati per raggiungere i risultati prospettati dal fotografo statunitense. Il digitale, pur mutuando i concetti base della fotografia, gode di un processo produttivo molto più fluido e flessibile, che si traduce in una maggiore libertà operativa. Fino a poco tempo fa la tecnica di ripresa più diffusa e seguita, soprattutto nei generi fotografici statici, era quella della ETTR, ovvero Expose To The Right, consistente, in sintesi, nell’impostare dei parametri di scatto tali da ottenere un istogramma spostato sulla parte destra dedicata alle alteluci, avendo cura di non clipparle, cioè bruciarle. La tecnica consente, con buona dose di verità in molti casi, di far giungere alle zone più scure dell’immagine più luce di quella che sarebbe necessaria, allo scopo di ottimizzare la resa dei fotodiodi, notoriamente in difficoltà con poca luce. Tale accorgimento, tuttavia, aumenta la dose di luce anche nelle zone più chiare, con il serio rischio di sovraesporle irrimediabilmente. Attraverso il controllo dell’istogramma si dovrà fare in modo che l’aumento di esposizione sia il maggiore possibile senza clipping delle alteluci.
La tecnica, come dicevo, è assolutamente valida in linea teorica, ma necessita di accorgimenti in tutti i casi in cui la scena pone dei forti contrasti e le zone con alteluci abbiano un peso marginale nella composizione.
Negli ultimissi anni, inoltre, sono comparsi sul mercato i primi sensori cosiddetti ISO Invariance, che rendono i casi in cui far ricorso all’ETTR ancor più rari.
In definitiva, per quel che riguarda la mia esperienza fotografica, non esiste una regola assoluta. La cosa fondamentale è conoscere perfettamente la propria attrezzatura ed avere già in mente come dovrà essere la fotografia finita. Solo così si potrà leggere l’istogramma con cognizione di causa e scegliere l’esposizione migliore.
Per esemplificare voglio mostrarvi una fotografia che ho scattato il 26 maggio scorso, in uno dei boschi più vetusti dell’Aspromonte.
Come potete notare la situazione fotografica era molto difficile, caratterizzata da un fortissimo controluce. Ho realizzato tre o quattro scatti, per collocare il sole appena dietro i rami, in modo da ridurre al minimo il flare e mantenere comunque la raggiera del sole, per poi scegliere quello che vedete sopra. La quasi totalità del fotogramma è occupata dal sottobosco, che avrebbe richiesto un’esposizione di tre stop più alta. Ciò, tuttavia, avrebbe sacrificato l’area illuminata in basso a destra e causato lo sfrangiamento dei bordi dei rami nella zona attorno al disco solare. Inoltre non volevo che il sottobosco apparisse troppo luminoso, per mantenere l’atmosfera densa e cupa che si respira in quel bosco.
Per tale ragione ho sottoesposto deliberatamente, mantenendo il lieve picco di alteluci solo in corrispondenza del disco solare.
Successivamente in postproduzione ho lavorato sulle ombre allo scopo di riequilibrare l’istogramma e fare emergere i mezzitoni, utilizzando anche schermature e bruciature localizzate. Il risultato è il seguente:
L’istogramma è piuttosto simile, ma presenta una migliore distrubuzione dei mezzitoni e una minore chiusura delle ombre, mentre le alteluci sono rimaste pressochè invariate.
Le operazioni di sviluppo del file RAW saranno oggetto della prossima puntata, dove verranno analizzate ed illustrate nel dettaglio, anche tramite videotutorial illustrativi.
L’attrezzatura fotografica
Si è parlato di maturità anche in relazione al corredo fotografico, ma questo argomento merita un attimo di approfondimento. Per fare FineArt non occorre un corredo fotografico costosissimo. Si tratta, anche in questo caso, di trovare il giusto compromesso tra costi e qualità, soprattutto in riferimento alle effettive caratteristiche e resa di un determinato accessorio.
Sempre a causa della progressiva, vorticosa riduzione delle fotografie stampate, le valutazioni circa le performances del sistema ottico fotocamera(sensore)-lente avvengono ormai esclusivamente tramite lo schermo del computer, magari su un ingrandimento al 100% di un file generato da un sensore da 20 o 30 megapixel! Questa pratica, che non può definirsi errata in senso assoluto, rischia però di fuorviare il fotoamatore e spingerlo all’acquisto di attrezzature più performanti ma per lui assolutamente inutili.
La qualità di un sistema ottico, infatti, deve sempre essere misurata in relazione al livello di ingrandimento che si ha intenzione di ottenere. Le immagini che vengono pubblicate in rete hanno risoluzioni di 1000/1500 pixel sul lato lungo e 72 dpi, dunque una risoluzione complessiva inferiore al singolo megapixel o poco più. In condizioni simili, pertanto, sarà impossibile distinguere una fotografia scattata con un sistema ottico da tremila euro oppure da cinquecento. Ai tempi della pellicola le cose stavano diversamente, perchè l’unico modo di ingrandire un negativo era quello di stamparlo e chi non era solito superare il formato 15x20cm difficilmente poteva trovare scadente il proprio sistema ottico.
Oggi facciamo i raggi x alle nostre fotografie ricercando il dettaglio più minuto dei file scattati con la nostra reflex da 25 megapixel, per poi sacrificarli postando l’immagine su Facebook. Il dettaglio si riduce ad un semplice momento di onanismo se non ci preoccupiamo di realizzare delle stampe decenti.
Un altro mito da sfatare è quello dei 300 dpi in fase di stampa. Questa misura ha un senso su formati minori perchè è calcolata sulla base del dettaglio che l’occhio umano è in grando di rilevare guardando una stampa a 25-30 cm di distanza. Già un 30x45cm, comincia ad essere osservato con godibilità da una distanza di almeno un metro e ciò impone una rivisitazione del concetto di risoluzione di stampa. D’altra parte ci sono importanti fotografi che amano stampare le loro immagini in formati giganti, diciamo due metri di lato lungo, e non esiste una fotocamera digitale con una risoluzione in grado di garantire i 300 dpi su tali formati, neanche se ci rivolgiamo al medioformato. Anche un sensore da 50 megapixel, infatti, consente di stampare a 300 dpi fino al 50x70cm circa, non oltre, ma questo non significa che una stampa maggiore non possa essere realizzata con soddisfazione, tutt’altro.
Personalmente ho fatto stampare una fotografia nel formato 100×150 (un metro per uno e mezzo!) da un file prodotto dalla mia Nikon D700, notoriamente equipaggiata con un elemento sensibile da “soli” 12 megapixel. Ciò vuol dire che quel file è stato stampato ad appena 72 dpi, eppure è appeso alla parete del mio studio ed apprezzato da ogni cliente che entra. Ciò in quanto una tale dimensione di stampa richiede una distanza di osservazione non inferiore ai due o tre metri, che rende impossibile distinguere i punti nonostante la bassa risoluzione di stampa. Certamente se il file avesse avuto una risoluzione nativa più elevata, il livello di dettaglio sarebbe stato maggiore anche a distanze di osservazione più ravvicinate, ma ciò non significa che la stampa sia impossibile o sbagliata. Tutto sta nell’individuare le aspettative e valutare la destinazione di un certo manufatto.
Un altro elemento da considere è poi lo sfruttamento della risoluzione da parte della lente: se l’obiettivo non è all’altezza del sensore, infatti, si riduce la risoluzione effettiva.
Meglio avere meno megapixel sul sensore ma una lente performante piuttosto che il contrario!
Quello che conta, dunque, è l’equilibrio complessivo del sistema ottico che, lo ripetiamo, è composto dall’accoppiata sensore-lente e dal livello di ingrandimento che intendiamo realizzare in fase di stampa. Dal momento che stiamo parlando di stampa FineArt casalinga, con stampanti sino al formato A2, non serve disporre di un sensore dalla risoluzione esagerata, anche perchè una risoluzione maggiore richiede ottiche di altissimo livello per essere sfruttata del tutto. Un sensore da 12-15 megapixel, abbinato ad una lente di qualità offrono un’accoppiata vincente nella maggior parte dei casi, senza richiedere mutui per il loro acquisto.
Non a caso nel video introduttivo della prima puntata citavo l’ottima Fujifilm X30, come fotocamera ben adatta alla realizzazione di fotografie da stampare in FineArt. La X30, di cui parlo approfonditamente in questa recensione, è equipaggiata con un sensore di tipo X-Trans da 12 megapixel senza filtro low-pass, sfruttato da un’obiettivo Fujinon dotato di lenti asferiche e trattamento antiriflesso Super EBC. Questa accoppiata garantisce un elevato equilibrio tra risoluzione del sensore e resa ottica, in quanto l’obiettivo è progettato appositamente per quel tipo di sensore. Ovviamente, trattandosi di una fotocamera dotata di un sensore da 2/3″, paga qualcosa in termini di resa nei confronti di una reflex, specialmente alle sensibilità stratosferiche cui i produttori ci hanno abituato negli ultimi anni, ma si tratta comunque di una fotocamera dalle indubbie doti. Il motivo per cui la cito risiede, appunto, nel suo elevato rapporto qualità prezzo, che dimostra come non sia necessario acquistare attrezzature costosissime per realizzare fotografie dall’elevata qualità ottica.
Qui sotto una delle ultime fotografie prese con la X30
Un’ultima considerazione voglio dedicarla al mondo degli obiettivi. Negli ultimi due o tre anni i maggiori produttori si sono indaffarati a rinnovare il proprio parco ottiche, al fine di adeguarlo alle mostruose risoluzioni dei nuovi sensori, sempre più infarciti di megapixel per soddisfare le pretese del mercato. I consumatori richiedono sensori sempre più risoluti e ottiche sempre più nitide, come se non esistessero altri parametri per valutare la resa di un sistema ottico. Ciò sta conducendo il mercato verso la produzione di ottiche sempre più pesanti, ingombranti e costose, che offrono senza dubbio un’elevata qualità complessiva, ma che a ben guardare si riducono ad esercizi di stile sbandierati come strumenti irrinunciabili. Le caratteristiche intrinseche di una lente non risiedono unicamente nella sua risolvenza, ma vanno ricercate in fattori come il micro-contrasto e la resa cromatica.
In questo articolo, Yannick Khong ci racconta dell’esito della prova di uno degli ultimi “mostri” di casa ZEISS, l’Otus 28mm f/1,4, (6.900$ e 1390 grammi) paragonato al vecchio Nikkor 28mm f/2,8,(330$ nuovo e 206 grammi) che ha evidenziato come l’ossessiva ricerca della nitidezza, unita ad un progetto ottico complesso, va a discapito del micro-contrasto dell’obiettivo, nonchè del suo peso e del suo costo, senza offrire, nella maggior parte dei casi, un reale guadagno in termini di resa.
Io stesso sono rimasto stupito dalla qualità offerta dal Nikkor 50mm f/1,2 AI, datato 1978; una lente di quasi quarant’anni fa che offre una resa straordinaria anche su una moderna DSLR.
Conclusioni
La fotografia è un’arte solo appartemente semplice ed immediata. I parametri che determinano il successo di una fotografia sono molteplici e nonostante gli innumerevoli tentativi di codifica, continuano a risultare effimeri e sfuggenti. Non esiste, peranto, una regola (o un complesso di regole) che possa ritenersi universalmente valida per stabilire quando una fotografia è riuscita e, viepiù, quando meriti di essere stampata con tecniche FineArt.
Si tratta di una dimensione strettamente legata alla propria concezione fotografica e l’unico consiglio che mi sento di dare è quello di seguire una progettualità, evitando di scattare a caso o soltanto come risposta al semplice impulso di apprensione legato all’attrazione momentanea suscitata dal soggetto. La fotografia è un mezzo comunicativo estremamente forte e tale connotazione dovrebbe essere sottesa a qualunque immagine decidiamo di prendere.
In questo senso, anche il lato strettamente tecnico della ripresa ed della postproduzione dovrebbe rispondere ad un’idea precisa del fotografo, anche se la stessa non è di immediata percezione per l’osservatore. Così, non soltanto immagini perfettamente composte ed esposte, prive di distorsioni di sorta, sono legittimate a trovar spazio su un pregiato cartoncino FineArt, ma ogni immagine che abbia un’anima e dietro la quale si celi una storia degna di essere raccontata, pur se imperfetta nell’esecuzione tecnica. Nell’imperfezione, a volte, risiede la chiave per il successo di una immagine.
Certamente la piena padronanza tecnica è un fattore imprescindibile; solo così, infatti, è possibile operare delle scelte consapevoli e decidere se e quando contravvenire ai canoni estetici.
Nella prossima puntata scenderemo nei meandri della postproduzione, analizzando il processo di sviluppo di alcuni file RAW, fino all’ottenimento dell’immagine finita, pronta per la successiva fase di stampa.
Chi si fosse perso la prima parte può trovarla qui.
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