Visita a Roghudi Vecchio
Il paese incastonato tra le pieghe dell’Amendolea
Domenica 5 luglio 2015
Era il febbraio del 2009 quando, dalla sommità dell’abitato di Roccaforte del Greco, vidi Roghudi per la prima volta. Come un enorme animale sopito, mi apparve sul fondo della valle, arroccato sul suo sperone roccioso. Nei giorni seguenti insieme ad un mio amico tentammo di raggiungerlo ma la strada sconnessa e la mancanza di conoscenza del territorio ci impedirono di arrivare a destinazione. Da allora, nonostante l’inizio della mia attività euristica legata all’Aspromonte e le numerose peregrinazioni tra i suoi boschi, le sue fiumare e i suoi tesori, non ho più tentato di raggiungerlo, pur riproponendomi più volte di farlo, fino alla scorsa domenica.
Per motivi organizzativi non ho pianificato una vera e propria escursione, preferendo realizzare un primo sopralluogo in auto, con la precisa intenzione di raggiungere il borgo nel tardo pomeriggio e realizzare delle riprese alla calda luce serale. Obiettivi della mia visita, oltre al suggestivo borgo abbandonato, erano la Rocca del Drago e le Caldaie del Latte, singolari conformazioni rocciose esistenti pochi chilometri più a monte di Ghorìo di Roghudi.
Parto da Palmi, insieme ad alcuni compagni di avventura, verso le 15.30 del pomeriggio. E’ una domenica piuttosto calda e il sole picchia forte. Il tempo di mettere in macchina l’attrezzatura fotografica e partiamo, alla volta di Gambarie d’Aspromonte. L’idea, infatti, è quella di raggiungere Roghudi percorrendo la strada che dai pressi dell’invaso del Menta scende verso Roccaforte del Greco, per poi guadagnare il letto dell’Amendolea e risalire verso Roghudi.
La montagna si mostra subito molto benevola nei confronti della nostra visita, accogliendoci con una temperatura più bassa di oltre dieci linee rispetto alla zona costiera (a Gambarie il termometro dell’auto segnava circa 20 °C, contro i 32-35 di Palmi).
Superato l’abitato di Gambarie imbocchiamo la strada che conduce al Montalto e che percorriamo sino al bivio per la diga; da lì, dopo alcuni chilometri e dopo aver superato l’incrocio con la strada che scende a Melito di Porto Salvo, prendiamo a destra per Roccaforte. Si tratta di una strada molto suggestiva, che attraversa l’Aspromonte per raggiungere il versante Jonico. Si dipana attraverso la foresta di faggi e pini larici, raggiunge Piani di Cufalo e lambisce la sommità della frana Colella, per poi scendere dolcemente verso l’abitato di Roccaforte: una via di gran lunga più invitante del giro costiero, nel traffico della S.S. 106. Il fondo stradale è in terra battuta per buona parte del tragitto e richiede un po’ di accortezza nella guida. L’andatura lenta, d’altra parte, consente di godere meglio il paesaggio che, piano piano, si apre sulla costa jonica, una volta che la strada esce dal fitto della foresta. Purtroppo del meraviglioso bosco di Pino Laricio che ammantava il versante Jonico a monte di Roccaforte non resta che una distesa di cadaveri: alcuni anni fa, infatti, diversi ettari di foresta sono stati incendiati da qualche vandalo e richiederanno decenni e decenni per riprendersi.
Raggiungiamo il punto in cui la strada passa esattamente sopra la il Vallone Colella, che ospita l’omonimo affluente dell’Amendolea e ove, qualche decennio fa si è sviluppata una delle frane più imponenti d’Europa. Dall’auto non si gode la vista sulla vallata, perché la strada passa poco al di sotto della sommità, ma capisco di trovarmi in un punto molto panoramico e fermo l’auto per scattare qualche fotografia. Pochi passi e siamo affacciati sull’immensa distesa bianca lasciata dalla frana, la cui ferita è ancora visibile come se la terra avesse tremato ieri. Le proporzioni sono imponenti, superiori a quelle, pur mastodontiche, della frana Costantino, che nel 1973 originò l’omonimo lago naturale da sbarramento. In fondo si intravede il maestoso letto dell’Amendolea e la sommità del Monte Cavallo, ai cui piedi sorge Roghudi.
Proseguendo il cammino arriviamo in vista di Roccaforte del Greco: arroccata sulla sommità di un monte, appare quasi improvvisamente e assomiglia ad una cittadella medioevale fortificata.
La vita scorre lenta in questi paesi, rimasti pressoché liberi dalle contaminazioni tecnologiche degli ultimi decenni del secolo e dove ancora l’allevamento del bestiame e l’agricoltura sono largamente praticate. Ai bordi delle strade si trovano greggi, galline che razzolano libere, terrazzamenti coltivati e anziani che, con la zappa in spalla, rientrano dai campi.
Un mio amico mi chiede come sia possibile vivere in un posto come questo dove non esiste che la flebile ombra di tutto ciò che caratterizza la vita moderna, raggiungibile solo dopo decine di chilometri di strade tortuose e spesso dissestate. Per rispondere a questa domanda dovremmo prima chiederci cosa intendiamo per vita. Oggi siamo troppo legati al sistema consumistico, che offre a portata di mano più di quello che è effettivamente necessario o utile all’esistenza dell’essere umano. Questa condizione di lisergica opulenza annebbia la mente e impedisce di apprezzare il sapore del vivere. Con questo non voglio dire che per vivere si debba necessariamente rinnegare ogni forma di progresso. Semplicemente, si tratta di rallentare un attimo e guardarsi intorno, per riprendere coscienza dei valori più profondi, gli unici che possono davvero giustificare l’esistenza di un individuo. In tal senso, ritornando alla ricerca che sto portando avanti, non esiste tecnologia che possa sostituire la fruizione diretta del territorio, la frequentazione dei luoghi, il contatto con la gente… L’accrescimento interiore che consegue da questo tipo di approccio è insostituibile e senza di esso non vi è progresso alcuno.
Dal centro di Roccaforte la strada scende per altri quattro o cinque chilometri, srotolandosi tra tornanti rubati alla montagna, che ad ogni inverno tenta di riprenderseli scaricando rocce e massi, fino a guadagnare il letto dell’Amendolea. La maestosa fiumara, simbolo dell’Aspromonte e nota per le omonime cascate (conosciute anche come Cascate del Maesano o, dialettalmente, U schicciu da spana), in quel tratto termina di essere un tortuoso letto di ciottoli; le pareti della valle si restringono inesorabilmente ed un ponte in cemento, posto poche centinaia di metri prima dell’incontro con l’affluente Colella, ne consente l’attraversamento in auto.
Siamo nella pancia della Montagna, che incombe su di noi da ogni lato e che allunga sotto i nostri piedi l’imponente lingua bianca dell’Amendolea, il cui nome già solo suscita rispetto. Più a monte il letto del torrente diviene molto più tortuoso e stretto, proseguendo per almeno altri 15 chilometri fino alle cascate.
Superato il ponte in breve si raggiunge Roghudi. Situato tra le recondite pieghe della maggiore fiumara dell’Aspromonte, l’antico centro grecanico si mostra al visitatore in tutta la sua singolarità. Un nugolo di abitazioni, dislocate a varie altezze su uno sperone di roccia viva, abbracciato da un lato dall’Amendolea e dall’altro dall’affluente Furria. Le abitazioni più basse si affacciano direttamente sul fiume, mentre sulla sommità svetta la chiesa di San Nicola.
Il paese, dichiarato inagibile il 16 febbraio del 1971 con ordinanza del sindaco Romeo ed ormai completamente disabitato, mantiene una fortissima carica emotiva. L’anima delle persone che lo hanno abitato, il respiro delle loro storie di fatica e sacrificio per una vita dedicata alla terra, sono ancora lì, sospese tra lo spazio e il tempo, tra i muri di quelle case, tra quelle pietre che giammai dimenticano il dolore dell’abbandono.
Aspetto la luce migliore, la più bella, per fotografare il borgo nella cornice dorata della macchia mediterranea al tramonto. Con il suo ultimo raggio il sole illumina il borgo come un faro, prima di scomparire dietro la montagna. Sembra il dito di Dio che ci invita a non dimenticare.
Purtroppo non posso fermarmi a visitarlo con calma, c’è tanta strada da fare per tornare a casa e devo ancora raggiungere il piano della Rocca tu Dracu e delle Caldaie del Latte.
Risaliamo dunque in auto e proseguiamo verso Ghorìo di Roghudi. Non entriamo nel villaggio ma pieghiamo a destra, verso il cimitero, per poi proseguire per altri quattro chilometri, fino a raggiungere un tratto aperto e relativamente pianeggiante, dominato dall’imponente monolite al quale è legata la leggenda del drago. Secondo il mito il fantastico animale, che custodiva un immenso tesoro nei pressi della Rocca, terrorizzava gli abitanti della zona, scuotendo la terra e richiedendo il sacrificio di bambini per placare la fame, quando non era sufficiente il nutrimento delle vicine Caldaie del Latte, che fungevano da serbatoi.
La Rocca è un immenso blocco, probabilmente di arenaria, adagiato in perfetto equilibrio su un naturale piedistallo di roccia, che lo sostiene dalla base e da un lato, formando un varco ad altezza d’uomo. Guardandola si ha l’impressione che sia stata divisa a metà con un colpo di scalpello, separandola da un altro blocco del quale, tuttavia, non vi è traccia. Una delle pareti della Rocca ha una forma regolare, perfettamente verticale, sulla quale si notano dei motivi circolari, formati da incisioni a forma di mezzaluna. Non è dato sapere se sia stata la natura o la mano dell’uomo a forgiare questo singolare monolite. Le incisioni sono talmente perfette che risulta difficile attribuirle al millenario effetto dell’erosione, al quale può tutt’al più ascriversi il modellamento complessivo della Rocca. Ma la natura ha infiniti modi di manifestarsi e sono talmente tante le sue “stranezze” che non è possibile escludere nulla.
Quando arriviamo al pianoro, posto molto più in alto rispetto a Roghudi, ormai in ombra, la luce è ancora calda e vibrante e inonda le Caldaie del latte e la Rocca del Drago come una colata d’oro antico. Il cielo è ancora azzurro e le felci risplendono di un verde brillante. È la prima volta che vengo in questo luogo, benché abbia visto numerose immagini delle singolari rocce di Ghorìo, ed è sempre stupefacente verificare come nessuna fotografia, per quanto accurata, possa davvero mostrare la vera anima di un luogo.
La mia è una continua ricerca dell’impossibile, un’utopia del coinvolgimento collettivo, giacché vorrei poter condividere con chiunque le sensazioni generate dal contatto diretto con la nostra terra. Non potendo riuscirci in concreto, mi accontento di perfezionare il mio sguardo attraverso l’obiettivo, nell’intento di realizzare, se non altro, la più accurata documentazione dei luoghi che mi è possibile, per poi condividerla con le generazioni presenti e future.
Raggiungiamo i Campi di Bova quando il sole è basso sull’orizzonte. I tramonti di luglio sono fuoco puro. L’aria calda e la leggera foschia estiva fungono da filtro naturale, rendendo alla luce una grande intensità cromatica, mentre il disco solare è un cerchio perfetto e rosso carminio.
I colori, irradiati da quella luce, esplodono in sfumature degne dei più bei Renoir, riempiendo l’anima di chi osserva.
È con quella tavolozza di colori che, mestamente, raggiungiamo il caos della s.s. 106 per ritornare a casa.
AGGIORNAMENTO
Dopo il 5 luglio sono tornato a Roghudi il giorno 18 dello stesso mese, era un sabato. In quell’occasione, insieme a Giuseppe B., ho visitato anche Africo antico, di cui vi ho già raccontato in questo articolo. Tornando da Africo ci siamo fermati nuovamente a Roghudi. Questa volta siamo entrati nel paese, vagando tra le case ormai deserte e sventrate.
L’aria che si respira in questo borgo è diversa da quella di Africo. Qui le ferite dell’abbandono sono più fresche. Qualcuno è tornato ed ha cercato di ricostruire, di ricominciare, ed è così che si vedono case più moderne, in cemento armato e mattoni, che si sovrappongono agli antici abituri di pietra dei primi abitanti. In molte case ci sono ancora tracce di vita, oggetti, libri, un televisore… Sul davanzale di una finestra una caffettiera, aggredita dalle intemperie, si confonde con l’intonaco decrepito del muro. Su una scala delle scarpette da bambino evocano grida gioiose, che rimbombano tra gli stretti vicoli.
Il 27 dicembre scorso torno ancora a Roghudi, per accompagnare alcuni amici desiderosi di visitare l’antico centro grecanico. Casualmente incontriamo tra le case una signora in compagnia del figlio. Di cognome fa Romeo e i suoi genitori vivevano a Roghudi, prima che fosse ordinata l’evacuazione. Anche lei fino all’età di cinque o sei anni ha vissuto lì, tra quelle case, per poi trasferirsi insieme ai suoi a Bova Marina, dove tutt’ora vive. Vaghi e annebbiati sono i suoi ricordi di quella vita, di quando correva tra quelle strette vie, alcune delle quali si gettano a picco sull’Amendolea. Tale era il pericolo di finire giù, ci racconta, che suo nonno, che continuò a vivere lì anche dopo che lei e la sua famglia andarono via, era in continua apprensione quando la nipotina arrivava e magari gli veniva affidata per qualche ora.
Ora non c’è più niente di tutto questo, solo tante case vuote.
Tra tutte, però, una rimane ordinata. La porta, bloccata soltanto da un fermo in legno, apre su un piccolo soggiorno, nel quale un tavolo, una cucina a legna, delle sedie e dei boccacci di conserve, evocano presenze. Qualcuno torna, di tanto in tanto, consuma dei pasti e riporta un soffio di vita tra quelle mura.
Attualmente sono in atto dei lavori di risistemazione della via principale del paese. Qualche fontana è stata predisposta e sono stati collocati dei lampioni alimentati da pannelli fotovoltaici. Non so quale sia esattamente la portata di questi lavori, ma difficilmente riguarderanno l’intero abitato. Come potrebbero d’altra parte? Le somme necessarie, benché non si tratti di cifre astronomiche, sono comunque troppe per stuzzicare l’interesse della politica.
D’altra parte, se il recupero di borghi come Roghudi non si inserisce in un progetto di ampio respiro, che comprenda anzittutto la seria risistemazione della rete stradale, è impensabile anche solo immaginare l’idea di un nuovo inizio.
Perchè, come giustamente osserva Vito Teti ne “Il senso dei luoghi”, il villaggio di Roghudi e la sua comunità hanno smesso di esistere come tali dal momento in cui è iniziata la diaspora, da quando, per usare le sue parole, “il paese è esploso” in mille schegge schizzate ovunque.
Quella vita non tornerà più. Sono tracce di un mondo in frantumi, in bilico tra il definitivo oblio e la flebile idea di una rinascita…
Nota: le immagini che seguono sono state scattate in parte a luglio ed in parte a dicembre 2015.
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