ARTICOLO PUBBLICATO SU “In Aspromonte” di DICEMBRE
Dopo un agosto piuttosto mite, che ha più volte ospitato violenti temporali estivi, ci troviamo innanzi un autunno iroso, arrivato ostentando come biglietto da visita delle piogge torrenziali che caratterizzano il novembre calabrese. Nel fine settimana a cavallo tra ottobre e novembre, in particolare, un violento nubifragio ha colpito la zona aspromontana, sul versante tirrenico e soprattutto su quello ionico, causando ovunque danni, smottamenti e, purtroppo, mietendo anche alcune vittime umane. A Taurianova un uomo di 43 anni è stato trascinato via dalla corrente di un canale in piena, ed è stato ritrovato soltanto la mattina successiva, ormai privo di vita.
In occasione di questi tragici eventi si sente spesso dire che si tratta di circostanze eccezionali, che non si potevano prevedere e che, comunque, sarebbero da ascrivere alla classe di quegli eventi drammatici che si verificano raramente e che, in qualche modo, dovremmo tollerare.
Anche in queste occasioni torna in auge il problema della conoscenza del territorio, che non dovrebbe limitarsi alle sue potenzialità commerciali, latu sensu intese, oppure delle possibilità che esso astrattamente offre per la costruzione di opere edili, tanto costose quanto inutili e dannose, ma dovrebbe estendersi a tuttotondo, ricomprendendo ogni espressione naturale che lo caratterizza. Soltanto attraverso la conoscenza, unita alla coscienza individuale, è possibile individuare quel delicato equilibrio che ci consenta di con-vivere con la nostra terra.
Un territorio, infatti, è paragonabile ad un organismo vivente, con determinate caratteristiche che vanno dalla biodiversità in esso riscontrabile, alla sua morfologia, alla sua soggezione agli eventi climatici, ed in Calabria le alluvioni sono tutt’altro che un evento raro ed imprevedibile. Le storie di Africo, di Roghudi, di Potamìa, ma anche, coeve a noi, quelle di Pizzo Calabro, di Rossano, di Maierato e di numerosi paesi dell’interno che hanno visto strade letteralmente sventrate, danni incalcolabili e perdite umane, dovrebbero ricordarci ogni giorno che la natura non si può domare. Anzi, paradossalmente, la mano dell’uomo rischia di peggiorarne gli effetti già di per sé devastanti, attraverso la sistematica ed inarrestabile impermeabilizzazione del suolo, che consegue ad una edilizia spesso scellerata, che non fa che aggravare gli effetti della furia delle acque.
In Aspromonte le fiumare sono caratterizzate da un regime fortemente torrentizio. Esse, completamente aride nei tratti finali durante l’estate, si trasformano in mostri ruggenti durante l’inverno, alimentate dalle piogge dei mesi invernali, soprattutto ottobre e novembre.
Non è un caso che l’alluvione del 1951, che ha messo in ginocchio Africo ed altri centri abitati, si sia verificata proprio nel mese di ottobre.
Questa indole è il risultato della massiccia deforestazione che l’Aspromonte ha subito nei secoli passati e che è stata causa del radicale mutamento del regime dei torrenti. I grandi fiumi come l’Amendolea, il Bonamico, la La Verde, in passato erano addirittura navigabili in alcuni tratti, trasformatisi nelle odierne, immense distese di sassi a causa dell’intensa erosione, tutt’ora in atto, conseguita alla scomparsa dei boschi.
A queste cause, che hanno comunque una origine molto risalente (le ultime importanti deforestazioni furono causate dai romani, che depredavano i boschi di pino per recuperare la pece), si aggiungono quelle imputabili alla società moderna, che hanno ancor di più aggravato una situazione già drammatica. Se Africo e Roghudi, giusto per citare due dei casi più eclatanti di paesi piegati dalle alluvioni, hanno pagato a caro prezzo la loro collocazione precaria dettata da ragioni di sicurezza (il primo costruito su un ripido versante di montagna, solcato da diversi canaloni, pericolosissimi in inverno, il secondo su uno sperone di roccia che sorge dal letto dell’Amendolea), i paesi moderni non possono giovarsi di questa esimente. Essi, costruiti in siti solo apparentemente più sicuri, pagano a caro prezzo l’edilizia scellerata e sostanzialmente incontrollata degli ultimi cinquant’anni. L’enorme livello di urbanizzazione, cui è conseguito un esponenziale innalzamento
del livello di impermeabilizzazione del suolo, ha trasformato i paesi pedemontani in enormi scivoli, nei quali l’acqua scorre acquistando sempre più forza e velocità, travolgendo tutto ciò che incontra sul suo cammino. La scelleratezza, poi, trova il suo massimo apice allorquando la boria dell’uomo si spinge a deviare il corso dei torrenti per costruire, con la presunzione che un argine in cemento possa scongiurare ogni pericolo.
Ma quando la natura si scatena non ci sono argini che tengano e serve a poco colpevolizzare l’amministrazione comunale di turno, accusandola di non aver previsto, provveduto, predisposto…
Il modo di vivere moderno, caratterizzato da ritmi forsennati e da una massiccia presenza di tecnologia, ha generato un diffuso delirio di onnipotenza, che ci induce a pretendere di poter continuare normalmente la nostra esistenza con le nostre abitudini, anche quando forze superiori prendono il sopravvento e pretendono rispetto. Ecco, il problema che sta sul fondo di tutto questo fango, che non è soltanto quello dei fiumi, è proprio la totale assenza di rispetto per il territorio. Un territorio che crediamo di conoscere e che invece, sistematicamente, ci dimostra quanto poco sappiamo di lui.
L’alluvione di Brancaleone, sommersa dal fango, il disastro avvenuto sulla S.S. 106, sprofondata in corrispondenza di Caulonia, ove scavalca l’Allaro e letteralmente divorata dall’esondazione della fiumara di Bruzzano (c.da Pantano), che ha portato via, con l’ausilio della violenta mareggiata, anche il corrispondente tratto della ferrovia, sono figlie non tanto di errori o approssimazioni costruttive, quanto del mancato controllo dell’alveo dei fiumi. In occasione di precipitazioni così violente e abbondanti l’unico modo di contenere i danni è quello di garantire alle acque meteoriche una adeguata via di fuga, che segua il più possibile il corso naturale. Ed invece nulla viene fatto per la pulizia degli alvei, per la manutenzione degli argini e per il controllo delle principali vie di deflusso delle acque, quelle stesse vie solcate direttamente dal dito di Dio sui fianchi della montagna. E se da lato politico si riscontra spesso quella tendenza a partorire idee bislacche – l’ultima vedrebbe la realizzazione di un canale navigabile che colleghi la costa tirrenica a quella jonica, tra Catanzaro e Lamezia – dall’altro si pone, quale pericoloso contraltare, la acritica approvazione delle masse, che dimostrano una facile attitudine alla fascinazione evocata da simili progetti, salvo poi accusare gli stessi promotori di nulla aver fatto per evitare i disastri ambientali.
Esiste un modo per correggere tutto questo? Difficile a dirsi. Certamente un solo modo non basta, serviranno più azioni, da espletarsi su più fronti, per iniziare un’opera di recupero che, soltanto se svolta con costanza ed impegno, potrà portare, tra qualche decennio, a risultati positivi e concreti.
Un’opera che dobbiamo smettere di demandare unicamente a chi ci governa e iniziare noi stessi a realizzare, partendo dal domandarci, ad esempio, se quell’ennesima via di grande comunicazione che l’amministrazione di turno proclama a gran voce di realizzare o quell’opera faraonica alla quale si attribuisce presuntuosamente e scioccamente il potere di risollevare le sorti di questa regione, sono davvero necessarie per migliorare la nostra esistenza o se, invece, non faranno altro che allontanarci ancora di più dalla nostra terra, peggiorandone le sorti.
Non è con strade più dritte e veloci che potremmo dare un futuro a questa regione, né con chilometrici ponti sospesi o canali continentali. Come ebbe modo di osservare, con illuminato acume, il Presidente dell’Ente Parco Prof. G. Bombino, una strada veloce consente di raggiungere un luogo nello stesso, breve tempo che necessita per lasciarlo. Chi vuol intendere intenda.
Dunque non si tratta soltanto di scendere in piazza per manifestare contro qualcosa o qualcuno, ma di cambiare radicalmente l’approccio alla vita, riscoprendo gli antichi valori e prendendo coscienza del nostro posto nel mondo.
Mentre sto scrivendo queste righe sono le 17.30 del giorno di Ognissanti e continuamente leggo comunicazioni, post e considerazioni da parte di amici, sulla drammatica situazione che imperversa nella nostra provincia. Fotografie da ogni luogo del territorio con le quali si denunciano irregolarità costruttive o, semplicemente, si condivide una situazione di estremo disagio o addirittura di pericolo. Mi chiedo, però, che ne sarà domani di questa stretta solidale e virtuale, quando il sole riprenderà a splendere e potremo tornare tutti alle nostre vite. Mi chiedo se questo ennesimo
disastro servirà a farci capire che siamo noi i primi ad amministrare e a fare politica per lavorare sulle reali necessità di questa terra. Forse più verosimilmente, rimarrà soltanto l’amarezza e la solitudine delle persone che, oggi, hanno perso qualcosa o qualcuno nella furia dell’acqua e che vedranno il resto del mondo tornare a infischiarsene, affollando i centri commerciali.
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